
Se cerchi risultati veloci con l’AI, non hai capito il giusto approccio.
Capisco chi vuole tutto e subito. Anch’io pensavo così. Poi ho scoperto che l’AI non premia i veloci, ma chi ha la pazienza di crescere un passo alla volta.
Il tempo che serve per diventare davvero bravi
Quando ho iniziato a studiare intelligenza artificiale, due anni fa, non avevo idea di dove mi avrebbe portato.
Mi sembrava un territorio nuovo, affascinante e complicato. Passavo ore a fare prove, sbagliare, capire perché un modello non rispondeva come volevo, rimettere mano ai prompt, ricominciare da capo. A volte pensavo di essere indietro. Altre volte avevo la sensazione di aver trovato finalmente il filo giusto.
Nessuna di queste sensazioni è stabile, e va bene così.
Ho letto una storia:
Sebastian era molto bravo a basket e quindi lo hanno spostato nella squadra dei più grandi. Nelle prime settimane di basket Sebastian veniva sempre convocato, e questo lo faceva sentire forte e sicuro di sé. Poi, un giorno, il suo nome non è più apparso nella lista: delusione, lacrime e silenzio. Dopo qualche minuto, però, mi ha guardato e ha detto una frase che non dimenticherò: forse devo allenarmi di più così divento più bravo
Quella frase mi ha colpito. Perché è esattamente ciò che succede anche nel nostro lavoro con l’AI. Ogni volta che impari qualcosa, capisci che c’è un altro pezzo da scoprire. Ogni volta che pensi di aver capito, arriva una nuova versione, un nuovo agente, un nuovo modo di ragionare.
E allora rimetti le mani nel fango. Torni al punto di partenza. Riparti.
Questa dinamica, all’inizio, può intimidire, ma se la guardi bene è un vantaggio. Perché chi oggi ottiene risultati nell’AI non è la persona più veloce, né quella con più tool. È chi riesce a reggere il peso del tempo. Chi accetta che la curva migliore non è verticale, ma continua.
Negli ultimi mesi mi capita di fare 20 o 30 sessioni di formazione al mese nelle aziende. Alcune persone arrivano convinte che servirà una formula magica. Altre hanno paura di non essere all’altezza. E tutte, dopo un po’ di lavoro, capiscono che diventare bravi è una faccenda di esercizio. Come un muscolo. Come il fiato quando corri. Come il bambino che decide di allenarsi, nonostante non sia stato scelto.
Quando la fatica diventa il segnale giusto
C’è un momento preciso in cui smetti di sentirti travolto dall’intelligenza artificiale e inizi a sentire che la stai davvero usando. Non è quando arrivi al risultato perfetto. Non è quando impari a costruire un agente che automatizza un processo. Succede prima: quando accetti che la fatica è parte del percorso.
Negli anni ho visto tante persone mollare troppo presto. Non perché l’AI fosse difficile, ma perché avevano fretta. Volevano capire tutto in una settimana. Costruire automazioni senza imparare prima il funzionamento. Creare contenuti con i modelli senza ascoltare come ragionano. Volevano la scorciatoia.
Il problema è che l’AI non si lascia domare da chi la vuole domestica in fretta. Ti chiede presenza. Ti chiede pazienza. Ti chiede quella forma di concentrazione che arriva quando capisci che le competenze vere crescono come cresciamo noi: con errori, tentativi, giornate storte e piccole conquiste.
Oggi seguo progetti verticali con agenti che si occupano di parti complesse del lavoro aziendale. Ma ci sono arrivato così: un mattino alla volta. Una prova alla volta. Un “non funziona” alla volta. E se c’è una cosa che questo percorso mi ha insegnato, è che le competenze non fioriscono sotto pressione. Fanno il loro corso. Hanno un ritmo.
E qui entra in gioco qualcosa che spesso dimentichiamo: anche un elefante si mangia a piccoli bocconi.
Vale in tutto. Vale nella vita, nello sport, nel business. E vale nell’AI più che mai.
La fatica iniziale, quella che ti fa venire voglia di chiudere tutto, non è un segnale che non farai strada. È il contrario: è il momento esatto in cui stai uscendo dalla superficie e inizi a capire davvero.
La parte umana che nessun modello potrà sostituire
L’AI sta cambiando il nostro modo di lavorare, e tra qualche anno cambierà anche il modo in cui prendiamo decisioni. Ma c’è una cosa che nessun modello potrà mai imitare: la nostra capacità di dare valore a ciò che facciamo.
I modelli ragionano. Analizzano. Prevedono.
Noi scegliamo cosa vale la pena costruire.
In tutte le aziende in cui entro per fare formazione, porto un messaggio semplice: l’AI non è competizione. È un compagno di viaggio. Ti solleva, accelera, struttura, ma non decide chi sei. La tua intenzione, il modo in cui affronti gli ostacoli, la tua etica e la tua sensibilità rimangono il motore principale.
Quando le persone capiscono questo, si sbloccano.
Non hanno più paura di sbagliare.
Non vedono più l’AI come un giudice.
La vedono come un amplificatore.
Ciò che significa davvero lavorare con l’AI è questo: accettare che il progresso umano e quello tecnologico procedono insieme, ma non alla stessa velocità. Tu cresci come persona mentre impari a crescere come professionista. Il modello migliora ogni mese. Tu migliori ogni giorno in cui scegli di metterti lì, aprire un prompt, provare, fallire, riuscire.
Guardando il mio percorso, posso dirti una cosa con serenità: nessun risultato importante arriva in fretta. Però arriva. Sempre.
E arriva a chi continua.
A chi si mette in gioco.
A chi, come il bambino che non viene convocato, invece di chiudersi guarda dentro e dice: da domani mi alleno di più.
