L’AI è brillante, ma non capisce nulla: il vero problema siamo noi
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L’AI è brillante, ma non capisce nulla: il vero problema siamo noi

12/8/2025

L’AI sembra capire tutto. In realtà ci ricorda quanto poco conosciamo noi stessi. Restare umani mentre costruiamo strumenti sempre più potenti.

L’AI imita la mente, ma non la comprende davvero

Molti parlano di intelligenza artificiale come se fosse un’entità dotata di pensiero, volontà o coscienza. Non è così. L’AI riconosce schemi, prevede, collega, ma non “sente” e non “capisce”.

È un calcolatore straordinariamente veloce, addestrato sulle nostre parole, sulle nostre immagini e sui nostri errori. Ecco il punto: l’AI amplifica ciò che trova. Se incontra visione, amplifica visione. Se incontra superficialità, amplifica superficialità.

L’intelligenza artificiale non è intelligente. Siamo noi a darle direzione. Siamo noi che la usiamo per creare sistemi che funzionano, automatizzare processi, portare soluzioni nelle aziende e formare persone. Eppure, più la utilizzo nel mio lavoro tra soluzioni AI, automazioni e formazione, più mi accorgo di un paradosso interessante. L’AI è un riflesso. Non vede l’anima delle persone, ma ne porta alla luce i meccanismi nascosti. Ci costringe a guardare le nostre paure, la nostra fretta, la tentazione di delegare tutto.

Quando lavoro con i team nelle aziende, mi accorgo sempre dello stesso nodo: la tecnologia non è il problema. Il problema è la relazione che abbiamo con la tecnologia.

Molti cercano scorciatoie. Altri inseguono il “tool migliore” come fosse una gara. Altri ancora vedono l’AI come una minaccia. In realtà è solo uno strumento. Il modo in cui lo usiamo dice molto della nostra intelligenza, non della sua.

Alla fine, l’AI ci chiede di chiarire a noi stessi cosa vogliamo costruire, perché nessun modello può sostituire l’intenzione umana. E quando questa intenzione è confusa, anche il risultato lo sarà.

L’intelligenza, quella vera, nasce da limiti e contraddizioni

Ciò che chiamiamo “intelligenza” non è solo capacità di calcolo. È percepire, cadere, rialzarsi. È sbagliare e riorganizzare il senso. È intuire quando non abbiamo più tempo, quando serve coraggio o quando serve calma.

L’AI non ha corpo, non ha memoria emotiva, non ha storia personale. Non conosce la fatica. Non conosce il dolore. Non conosce il rischio. Non conosce la responsabilità che sentiamo quando dobbiamo prendere una decisione che avrà un impatto sugli altri.

Eppure, paradossalmente, l’AI esiste grazie ai nostri limiti. Se non fossimo fragili, se non avessimo bisogno di accelerare piccoli processi o liberarci da compiti ripetitivi, non l’avremmo mai costruita.

Quando entro in un’azienda per fare formazione, vedo sempre un momento preciso in cui le persone capiscono la cosa più importante. Non stanno imparando a usare un modello. Stanno imparando a riconoscere come la loro mente reagisce a un modello. È un cambio di prospettiva. E apre una domanda che, per me, è fondamentale: come facciamo a restare intelligenti mentre ci circondiamo di strumenti che simulano l’intelligenza?

La risposta è meno tecnica di quanto sembri. Dobbiamo continuare a coltivare le qualità che nessuna AI possiede: attenzione, empatia, scelta. E soprattutto responsabilità. Usare un agente AI o un’automazione avanzata può farci risparmiare ore ogni settimana, ma richiede un pensiero chiaro su dove vogliamo andare. Come un motore potente: utile se hai una direzione, pericoloso se non ce l’hai.

L’AI ci costringe a diventare più umani, non meno

C’è un’illusione diffusa: che l’AI ci farà diventare pigri o dipendenti. Accade solo se smettiamo di interrogarci. In realtà, più uso l’AI, più capisco che la responsabilità aumenta. Perché se un tempo perdevi tempo a fare task ripetitivi, oggi puoi usarlo per riflettere, decidere, migliorare i processi, aiutare le persone che lavorano con te.

L’AI libera tempo, ma il tempo libero obbliga a guardarsi dentro e a chiedersi: cosa sto creando? Qual è il valore reale che porto? Qual è l’impatto che voglio avere nelle persone intorno a me?

Ogni volta che porto una soluzione avanzata ai miei clienti (un workflow, un agente AI, un’automazione) la parte più importante non è mai il codice o la piattaforma. È il confronto. È ascoltare. È capire quali paure e quali desideri stanno muovendo la loro richiesta. Perché l’AI accelera ciò che già c’è. Se un’azienda è confusa, l’AI aumenta la confusione. Se un’azienda è lucida, l’AI accelera la lucidità.

In un’epoca in cui tutto sembra rapido, l’AI non chiede velocità. Chiede profondità. Chiede intenzione. Chiede cura.
Ci costringe a non essere superficiali. Ci obbliga a ripensare il modo in cui comunichiamo, decidiamo, guidiamo i team.

E per quanto possa sembrare paradossale, più diventiamo capaci di usare l’AI, più diventiamo consapevoli di ciò che nessuna AI potrà mai fare. Sentire. Interpretare silenzi. Riconoscere tensioni. Dare fiducia. Essere presenti. Questo significa essere intelligenti.

La tecnologia non ci toglie l’umano ce lo restituisce. Ci mette davanti all’evidenza che la parte più profonda di noi non può essere automatizzata. E forse è proprio questo il regalo più grande dell’AI: ci ricorda che la vera intelligenza non sta nei modelli, ma in chi li guida.