L’AI non paga la teoria: paga chi sa risolvere problemi
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L’AI non paga la teoria: paga chi sa risolvere problemi

9/26/2025

L’AI non è un talento da esibire, ma uno strumento da applicare. Non ti paga per sapere tutto: ti paga per risolvere problemi che nessuno vuole affrontare.

Illusione e realtà

Molti guardano all’intelligenza artificiale come a un enigma da decifrare o a una scorciatoia per arricchirsi. Alcuni pensano serva diventare esperti di machine learning e addestrare modelli complessi, altri che basti lanciare l’ennesimo chatbot per vedere arrivare clienti. Sono illusioni.

La realtà è più semplice, e molto più concreta: il mercato riconosce valore solo a chi risolve problemi reali. Un’azienda non ti chiede di costruire un nuovo GPT, ma di filtrare i messaggi su LinkedIn, analizzare migliaia di righe di dati, trasformare ore di video in articoli chiari e leggibili.

Un esempio:
un cliente del settore formazione mi ha contattato perché il team passava giornate intere a smistare richieste di iscrizione arrivate via mail e social. Non serviva un nuovo modello di AI, serviva ridurre quell’enorme spreco di tempo. Ho costruito un flusso semplice: un agente che leggeva le mail, categorizzava i messaggi, compilava in automatico un CRM e inviava la prima risposta standardizzata. Risultato? Risparmiate 20 ore a settimana e più tempo per seguire davvero gli studenti.

È qui che si vede la differenza tra chi studia per collezionare nozioni e chi invece mette le mani sugli strumenti, impara a usarli con metodo e li trasforma in soluzioni.

La verità è che non ti serve sapere tutto. Ti serve capire abbastanza per agire subito, sperimentare e mostrare risultati. Perché un cacciavite lasciato sul tavolo non costruisce nulla: ciò che conta è chi lo usa per stringere la vite giusta.

Tre passi per generare valore

Se vogliamo rendere l’AI uno strumento concreto nelle aziende, il percorso è fatto di gradini.

Il primo è partire subito: non servono titoli accademici per collegare due tool e automatizzare processi banali ma costosi in termini di tempo. Con qualche ora di pratica si possono gestire lead in modo ordinato, rispondere automaticamente a email ripetitive o riciclare contenuti in più formati. È il caffè che ti sveglia e ti fa muovere i primi passi.

Il secondo gradino è professionalizzare. Significa andare oltre le automazioni semplici e imparare a costruire sistemi più solidi: raccogliere e interpretare dati, creare dashboard utili, sviluppare agenti AI su misura per il supporto clienti o il reparto commerciale. Qui la differenza non è più solo il tempo risparmiato, ma la nuova capacità che offri al business.

Il terzo passaggio è scalare. Quando smetti di vendere ore e inizi a costruire asset – un micro SaaS, una libreria di automazioni, un percorso formativo – il valore diventa indipendente dal tuo tempo. È il punto in cui l’AI non è più un esperimento, ma un sistema che lavora anche senza di te, generando ritorni costanti.

La specializzazione come responsabilità

C’è un aspetto che spesso viene sottovalutato: lavorare con l’AI nelle aziende significa assumersi una responsabilità. Non basta conoscere due tool per presentarsi davanti a un cliente e vendere soluzioni. Serve comprendere i limiti dei modelli, il tema della privacy, l’impatto etico delle scelte. La velocità con cui sperimentiamo deve essere accompagnata dalla consapevolezza che stiamo mettendo mano a processi critici, dati sensibili, persone reali.

Qui entra in gioco la specializzazione. Le grandi aziende spesso sono lente, bloccate da procedure e burocrazia. Un consulente o un formatore che studia costantemente, che integra strumenti nuovi e li testa sul campo, ha un vantaggio enorme: può offrire soluzioni aggiornate, concrete e credibili. Non è improvvisazione, ma competenza maturata con disciplina.