Identità speculative: quando il brand diventa organismo
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Identità speculative: quando il brand diventa organismo

10/3/2025

Le AI stanno trasformando i brand in entità conversanti, in “esseri” che agiscono e co-evolvono. Vediamo come e perché.

Dalla messaggio all’essere

Marco Livi introduce il concetto di identità speculative, in cui un brand non è più un insieme di slogan, valori dichiarati e messaggi statici, ma un agente che si manifesta nel tempo e nelle relazioni.
Livi sottolinea che i modelli tradizionali di branding – quelli che definiscono missione, tono, look & feel – stanno mostrando limiti. In un mondo saturo di comunicazione, le parole perdono peso se il brand non le “vive”.
Il salto che propone è questo: non chiedersi più “cosa diciamo del brand”, ma “chi è il brand” e “cosa fa nel mondo”.

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I pilastri dell’identità viva

Per costruire un brand agente servono sei livelli, che vanno dal nucleo etico fino all’impatto rigenerativo.

  • DNA etico: valori non negoziabili che informano ogni scelta. Non sono slogan ma vincoli operativi.
  • Persona cosciente e bias dichiarati: il brand adotta una “personalità” con inclinazioni (ad esempio pro-ambientali, critiche al greenwashing).
  • Volontà manifesta (agency): il brand agisce, può scegliere, accettare o rifiutare percorsi, coerentemente ai suoi valori.
  • Meccanismo rigenerativo: ogni interazione genera valore, relazione, apprendimento — anche sbagliando, chiedendo scusa, correggendosi.
  • Scopo teleologico: non vendere più tanto, ma contribuire a un orizzonte “preferibile”: sociale, ecologico, culturale.
  • Metrica alternativa: non più solo KPI come like, follower, vendite, ma integrità, qualità relazionale, rigenerazione.

Il modello “Specula” che Livi propone è una mappa concettuale per mettere in pratica questo paradigma.

Esempi concreti di identità speculative

Livi cita esperimenti di brand che hanno già mosso i primi passi in questa direzione.

Ci sono chatbot che non si limitano a rispondere, ma che prendono posizione quando una richiesta contrasta con i valori dichiarati dall’azienda. Altri brand hanno introdotto sistemi di AI capaci di rifiutare progetti considerati incoerenti con la loro identità ecologica o sociale. Un esempio emblematico è quello di alcune piattaforme creative che lasciano all’AI la possibilità di scegliere se “collaborare” o meno con l’utente, creando un senso di autonomia quasi umana.
Questi casi non sono solo marketing: sono test di cosa accade quando un brand diventa una “persona” con cui dialogare, discutere e perfino entrare in conflitto.

Rischi, pratiche e compiti umani

Il modello è affascinante, ma difficile da realizzare. Livi mette in guardia: servono empatia artificiale, memoria conversazionale stabile e capacità di ragionamento etico.
Un brand con “agency” non può essere lasciato a una scatola automatica. Occorre un “Brand Alchemist” o un team che curi l’evoluzione dell’identità, supervisioni i feedback e medi tra tecnologia e valori umani.
Si suggerisce di partire con sperimentazioni graduali, prototipi, test trasparenti.

Una riflessione personale

Leggendo queste idee, non posso non pensare al modo in cui vivo io stesso la mia relazione con i clienti. Ogni progetto non è mai solo un contratto o un flusso di attività: è un organismo che cresce, si nutre di fiducia e può rigenerarsi dopo gli errori. L’AI accelera e radicalizza questa visione: ci mostra un futuro in cui i brand avranno non solo voce, ma volontà.

La domanda vera è: siamo pronti a lasciare spazio a un brand che possa dirci “no”? Io credo che qui si giochi la sfida etica più importante. E non riguarda solo il marketing: riguarda il coraggio di accettare che anche nelle relazioni professionali esiste un’anima, fragile e viva, che chiede rispetto.